PIERO MOLLICA

Con le campiture omogenee, con l’organizzazione geometrica delle superfici ribaltate sul piano frontale, con il taglio parziale di apparati architettonici complessi piegati alla logica della composizione formale, gli scatti di Piero Mollica evocano la fotografia di inizio Novecento, quando la tecnica di recente invenzione si apprestava ad abbandonare il naturalismo per accedere ai linguaggi della più avanzata pittura modernista. Le fotografie di Paul Strand, ad esempio, offrono ad un tempo l’archetipo ottico e il gene ereditario per le sue visioni astratte.
 
 
Nelle fotografie di Mollica il ritmo lineare è cristallino, la luce non proviene quasi mai dall’esterno ma si fonde con la materia degli edifici e con il colore. L’irradiazione si espande in un massimo di intensità cromatica nelle superfici tese, ovvero le scioglie in un liquido vitreo e specchiante.
 
 
Sebbene la suggestione estetica investa immediatamente la sensibilità dell’osservatore, essa è però secondaria nell’opera. Ogni architettura nasce, innanzitutto, con il fine di ospitare l’uomo, consentendogli di abitare uno spazio proporzionato alla sua misura psichica e fisica. Molte fotografie di Mollica mettono a fuoco la basilare relazione tra il soggetto e la costruzione dello spazio abitabile, denunciando un rapporto che stride con i suoi presupposti umanistici. Più che essere il fine di ogni progetto, l’uomo ne è quasi annichilito, assente o microscopico, inghiottito o minimizzato davanti ai nuovi Olimpi tecnologici.
 
 
La bellezza sensibile rivela così l’inospitalità di luoghi sempre più virtuali, dove la presenza umana è ridotta ad appendice digitale, come nei rendering tridimensionali dei progetti da realizzare apposti all’ingresso dei cantieri urbani. Perdute le proporzioni umanistiche, l’architettura incarna così un nuovo sublime. Kant vedeva il sublime come un senso di sgomento di fronte alla vastità e alla potenza della natura. Un turbamento, tuttavia, esorcizzabile dalla coscienza della più alta morale e della ragione essenzialmente umane. Di fronte alle dimensioni sempre più titaniche delle nuove architetture, alle curve e ai volumi sezionati e ripiegati su se stessi, l’uomo avverte invece la propria esclusione; respinto all’indietro, si specchia nella propria assenza. Lo spazio artificiale che ha sostituito la natura è infatti il prodotto delle sue capacità intellettuali, l’oggettivazione della sua stessa ragione. Non sembra restare dunque alcuna via di riscatto nel sublime architettonico, se non l’eroismo quotidiano di chi lo contempla, lo penetra e l’attraversa.
 
 
Michele Bramante